La riflessione filmica sulla Resistenza sembra affondare le proprie radici nel terreno già fervido e variegato del cinema neorealista, anch’esso espressione di differenti istanze ideologiche e culturali: ciò che accomuna pellicole anche molto eterogenee fra loro è, innanzitutto, l’esplicita volontà di distacco – sia sul piano contenutistico che estetico – dalla cinematografia precedente, espressione del regime, propagandistica o velleitariamente d’evasione, a favore di narrazioni che esplicitassero la presa di coscienza, l’azione di riscatto, soprattutto a livello popolare, dalle maglie oppressive del governo fascista. Qualche cosa di simile avveniva, fatte salve le debite differenze, nella società italiana che si apprestava alla ricostruzione, sostando in equilibrio precario sulle macerie ancora fumanti della guerra. Emblematiche, in questo contesto, si rivelano – come sappiamo – opere quali Roma città aperta (1945) e Paisà (1946), di Roberto Rossellini, quest’ultima definita da Morando Morandini nella versione 2013 dell’omonimo dizionario “un potente affresco collettivo”. Il limite di questa operazione – comune alla maggior parte degli altri film “resistenziali” di questa fase e, ancor più, di quella successiva – sta nella rappresentazione della lotta partigiana nella sua valenza esclusiva di reazione contro l’oppressore straniero. Di là da venire il riconoscimento di vera e propria guerra civile (difficile da metabolizzare ancora oggi, nell’attualità delle nostre vicende nazionali), l’immagine della Resistenza è quella del conflitto di un popolo aspirante alla libertà, in cui l’amalgama e il livellamento tra opposte fazioni politiche e ideologiche sono massimi. Rare eccezioni, in questo senso, vengono da film come Il sole sorge ancora – 1946 – di Aldo Vergano (che nel realismo documentario della narrazione compone un affresco anche sociale dell’Italia occupata) e Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani (1951), che – a suo modo – conclude, con il coraggio di una descrizione lucida e antiretorica della gioventù partigiana, la prima fase della cinematografia resistenziale, prima che la cosiddetta “normalizzazione”, operata dal governo centrista nel decennio appena iniziato, riconduca la vicenda storica nell’alveo inoffensivo di retoriche celebrazioni nazionalistiche. In sintonia con le forme e i contenuti della narrazione proposta dal film di Lizzani troviamo, fra i rarissimi esempi degli anni Cinquanta, Gli sbandati di Francesco Maselli (1955): per entrambi è possibile istituire un parallelo con espressioni della cinematografia resistenziale più recente, in modo particolare con I piccoli maestri di Daniele Luchetti (1997), e – seppure in misura minore – con Il partigiano Johnny di Guido Chiesa (2000), principalmente per lo sguardo attento a cogliere la confusione e le incertezze esistenziali della generazione che scelse di entrare nei quadri della Resistenza. Il 1960 si apre, invece, con tre opere (Era notte a Roma di Roberto Rossellini, La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini e Tutti a casa di Luigi Comencini, introdotte, l’anno precedente, da Il generale della Rovere, sempre di Rossellini, e Kapò di Gillo Pontecorvo) che sembrano voler riportare al centro della scena e dell’interesse nazionale la lotta antifascista in tutte le sue forme, in una rinnovata ansia, soprattutto della nuova generazione che si appresta a vivere attivamente l’imminente trasformazione sessantottesca, di conoscere e giudicare al di fuori di ogni retorica. Così scorrono gli anni Sessanta cinematografici, ricchi di titoli e di tentativi di raccontare la Resistenza in forme nuove, o attraverso punti di vista inediti: pensiamo, solo per fare due esempi, a Tiro al piccione di Giuliano Montaldo (1961), che indaga l’esperienza dei soldati repubblichini, ponendoli al centro della storia (analogamente a quanto farà, nel 1984, Marco Tullio Giordana con Notti e nebbie, dal romanzo di Carlo Castellaneta); e a Il terrorista di Gianfranco De Bosio (1963), che accomuna nell’analisi Resistenza e lotta armata, sullo sfondo di un centro urbano come Venezia. Per comprendere appieno l’ultimo sguardo cinematografico sul fenomeno resistenziale – a partire dalla fine degli anni Novanta ad anni recenti – è necessario partire proprio dalla volontà di rielaborazione storica, dall’evoluzione del pensiero, dai tentativi di ampliamento dell’orizzonte critico che hanno avuto inizio fra gli anni Sessanta e i successivi Settanta: da film come Il sospetto di Francesco Maselli (1975), e L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo (1976, dal romanzo della partigiana Renata Viganò: la storia della contadina di Comacchio che diventa una staffetta partigiana, la stessa ambientazione, introducono una rilettura della Resistenza dalla parte degli umili che Giorgio Diritti riproporrà nel suo L’uomo che verrà, 2009). Gli anni Ottanta cinematografici non faranno che sviluppare ulteriormente questo processo, ma – in parallelo – fungeranno da specchio rifrangente un atteggiamento del tutto opposto: ossia la tendenza, in seno agli apparati governativi e, più genericamente, alla società dell’epoca, ad un’ambigua proposta di “pacificazione” tra oppressi e oppressori, vincitori e vinti. A tali strettoie creative sfugge, nei primi anni Ottanta, un film di rara bellezza, La notte di San Lorenzo dei Taviani (1982), in cui già si ritrova quella dimensione memoriale che caratterizzerà, di lì a pochi anni, sia I nostri anni di Daniele Gaglianone (2001) che il già citato L’uomo che verrà. Una selezione di pellicole resistenziali appartenenti al periodo citato è fruibile gratuitamente in streaming attraverso le principali piattaforme: nello specifico, Il sole sorge ancora, Achtung! Banditi, L’Agnese va a morire su YouTube; I sette fratelli Cervi di Gianni Puccini (1968) su Rai Play.
A sessantasette anni dalla sua uscita sugli schermi e dalla presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia, dove vinse il Leone d’Argento nel 1953 come miglior film, I vitelloni – terzo lavoro di Federico Fellini dopo Luci del varietà diretto insieme a Lattuada (1950) e Lo sceicco bianco (1952) – è ancora una pellicola di sorprendente modernità, non solo per il ritratto amaro e disincantato delle poche luci e moltissime ombre che attraversano una condizione generazionale divenuta emblematica, ma anche per la modalità stessa della rappresentazione, ormai lontana da qualsiasi schematismo tradizionalista. A partire da Lo sceicco bianco Fellini inizia una proficua collaborazione con gli sceneggiatori Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano, che durerà sino a Giulietta degli spiriti (1965): è proprio Flaiano a suggerire il titolo del film a Fellini, visto il tema (la vita quotidiana di cinque giovani di provincia). Vudellò, infatti, nel dialetto di Pescara – città natale dello scrittore che fa da sfondo alla vicenda nel soggetto originario – indica in quegli anni i ragazzi sfaccendati che trascorrono le loro giornate al bar, senza lavorare. Con il film di Fellini l’espressione diventa gergale e di uso comune anche al di fuori del pescarese. Pur accogliendo lo spunto linguistico di Flaiano, Fellini decide di ambientare la storia a Rimini, con un palese intento autobiografico che permarrà nelle opere successive, seppur trasfigurato dall’estro immaginifico e dal talento affabulatorio del regista. Non a caso, le riprese de I vitelloni hanno luogo a Roma, Ostia, Viterbo e Firenze, a dimostrazione del fatto che Fellini è in grado di restituire l’essenza di un determinato luogo pur essendone lontano, solo con la facoltà sublimatrice del suo ingegno. La narrazione – come sappiamo – ruota intorno alle esperienze personali e di gruppo dei cinque amici “vitelloni”: Fausto (Franco Fabrizi), personaggio principale e filo rosso che unisce le storie altrui, seduttore incallito e fedifrago; Alberto (Alberto Sordi), nullafacente che vive ancora in famiglia, ossessivamente attaccato alla sorella Olga (Claude Farell); Leopoldo (Leopoldo Trieste), aspirante drammaturgo costretto a farsi mantenere dalle sue zie; Riccardo (Riccardo Fellini, fratello del regista), accanito giocatore; e, infine, Moraldo (Franco Interlenghi), il più maturo e responsabile di tutti, l’unico che troverà davvero il coraggio di abbandonare la provincia per trasferirsi a Roma. Lo sguardo di Fellini non giudica, ma pur cogliendo con acume e lucida ironia, con bonaria accettazione e gusto per l’iperbole i frizzi e lazzi inconcludenti dei cinque scapestrati, approda a una presa di coscienza amarissima, legata al probabile fallimento esistenziale di un’intera generazione (a cui lui stesso appartiene) fin dai suoi esordi sul palcoscenico del mondo. A pochi anni dalla fine del secondo conflitto mondiale i giovani chiamati a edificare il futuro si rivelano colmi di indecisioni, dubbi, pessimismi e stanchezze, anziché di energie e speranze, in uno scacco tragico, irrevocabile. Il personaggio di Moraldo – come si è detto – rappresenta l’unica e flebile nota di speranza, con la sua saggezza atipica: costituendo, oltretutto, un riferimento biografico molto forte per lo stesso Fellini, che cela sotto quel nome l’autentica amicizia per il veneziano Moraldo Rossi, classe 1926, figlio dell’attrice Cosetta Greco, trasferitosi a Roma da ragazzo per tentare la strada dello spettacolo. Lo attendeva, invece, l’incontro con l’altrettanto giovane regista di Rimini, per il quale diventò non solo un fedele amico, ma una fonte d’ispirazione, anche dopo l’avventura de I vitelloni. Per quanto riguarda, invece, la presenza non trascurabile di un Alberto Sordi ancora non pienamente apprezzato dalla critica, alla sua seconda prova con il sodale Fellini (che lo impone ai produttori, ricevendo a sua volta un’accoglienza piuttosto fredda dai giornalisti cinematografici all’uscita del film), ne racconta Monaldo stesso ad Alberto Crespi in L’amico vitellone. Intervista a Moraldo Rossi, edita nel gennaio 2019 dalla rivista “Bianco e Nero”: «Bisogna dirlo: tutti i dialoghi di Alberto in Lo sceicco bianco e in I vitelloni sono scritti da lui stesso. Si scriveva tutto, da solo, perché anche se aveva poco più di trent’anni e non aveva ancora avuto successo, Alberto Sordi era già “Alberto Sordi”, e Fellini non poteva costruirgli un personaggio addosso, doveva stare a quello che diceva lui. Ma questo a Federico, allora, stava bene: tanto è vero che per entrambi i film si dovette imporre, in maniera forte, per averlo. Senza il suo apporto creativo i due film sarebbero stati diversi. Però questo è anche il motivo per cui non hanno più lavorato assieme». Il connubio dei rispettivi talenti artistici ha dato vita a due gioielli della cinematografia mondiale, tra le forme più alte di un’espressività giocata da entrambi – l’attore-maschera e il regista visionario – sul filo di una spietata comicità, di una tragica ironia. I vitelloni è fruibile in streaming gratuito sulla piattaforma di YouTube.
Barbara Rossi