L’opera prima dell’israeliano Asaph Polonski, Una settimana e un giorno, Eyal Spivak (Shai Avivi) e sua moglie Vicky (Evgenia Dodina), premiata al Jerusalem Film Festival e alla “Semaine de la Critique” a Cannes, racconta una storia di lutto e rinascita, quella di Eyal Spivak (Shai Avivi) e di sua moglie Vicky (Evgenia Dodina), che tentano disperatamente di riprendere a vivere al termine della rituale settimana di lutto in seguito alla scomparsa del loro figlio. Mentre Vicky è bloccata nel proprio dolore, isolata dal resto del mondo da una sorta di simbolico diaframma che le impedisce di provare emozioni come di trasmetterle, Eyal reagisce sublimando in se stesso il carattere e i comportamenti tipicamente adolescenziali del ragazzo, e quindi accettando esperienze apparentemente lontane dalla sua età e mentalità, come, ad esempio, fumare uno spinello. Polonski tenta di mettere in scena due differenti percorsi di elaborazione del lutto, riuscendovi molto bene, con rigore stilistico e narrativo.
Dal romanzo dello scrittore olandese Herman Koch, La cena, Oren Moverman, israeliano come Menno Mejyes, l’autore della prima trasposizione cinematografica (2013) di questa vicenda drammatica e crudele di biblici scontri tra fratelli, mariti e mogli, genitori e figli, ricava un plot adattato all’ambientazione americana della pellicola. In The Dinner ad avventarsi l’uno contro l’altro sono Paul (Steve Coogan) e Stan (Richard Gere), politico d’assalto con una reputazione da difendere. La storia non varia rispetto alla fonte originaria; il nucleo è sempre rappresentato dalla fatidica cena in cui si dipanano i risvolti tragici di un’ “intemperanza” adolescenziale che si è tramutata in tragedia. Le coppie – formate rispettivamente da Stan e Claire (Laura Lynney) e da Steve e Katelyn (Rebecca Hall) – saranno costrette a confrontarsi con il mistero dell’esistenza quotidiana, dei pensieri e dei non detti dei propri figli, mentre il naufragio familiare e genitoriale è appena dietro l’angolo. Il nostro Ivano De Matteo aveva già tentato, sull’ onda della pellicola israeliana, una trasposizione nel 2014, realizzando I nostri ragazzi, in cui un ruolo analogo a quello di Stan era rivestito da Alessandro Gassman nei panni di Massimo, avvocato di grido con scarsi scrupoli morali. Moverman, invece, calca la mano su di un’ambientazione e dei profili caratteriali tipicamente americani: ciò non sottrae, tuttavia, incisività e senso a un racconto che si interroga incessantamente sul cortocircuito tra principi morali e necessità di salvaguardare gli affetti più cari.
“Fortunata è un nome ma anche un destino, e non è detto che quel destino sia fortunato. È un aggettivo singolare femminile, ma anche uno sguardo nei confronti della vita. Certo, lo sguardo può cambiare anche nel corso dell’esperienza: all’inizio pensi di fare un certo film e poi ti si trasforma fra le mani. Vado sul set con una sceneggiatura ma da quando iniziano le riprese il copione viene continuamente riscritto”. Fortunata è anche il titolo dell’ultimo film di Sergio Castellitto, sceneggiato come sempre dalla moglie scrittrice Margaret Mazzantini, in concorso a Cannes nella sezione “Un Certain Regard”. Il film (con qualche parallelismo, in questo senso, con il Non ti muovere del 2004) racconta la parabola di Fortunata (Jasmine Trinca), appunto, una parrucchiera senza molta fortuna, madre di una bambina di otto anni, che alleva da sola, fotografata mentre prova a costruirsi un’esistenza dignitosa, nel contesto di una periferia romana alquanto pasoliniana e straniante. “Fortunata è una Madame Bovary delle borgate romane” – afferma il regista – “e Jasmine Trinca, con cui ho già lavorato in Nessuno si salva da solo, è una persona speciale con cui c’è una bella intesa umana e artistica. Io amo gli attori con cui lavoro, me li scelgo non solo per il loro talento ma anche per la loro sostanza. A parità di talento, poi, scelgo uno che mi sta simpatico. E Jasmine mi è simpatica davvero”. Il cast di tutto rispetto scelto da Castellitto – da Stefano Accorsi a Edoardo Pesce ad Hanna Schygulla, nel ruolo di una malata di Alzheimer – si presta volentieri e con immedesimazione a fare da cornice narrativa alla vicenda di Fortunata, agrodolce in certi momenti, straziante per lo più, nell’incessante viaggio della coppia Mazzantini-Castellitto nell’universo di un sottoproletariato ancora debole, sottomesso dai poteri forti, ad inseguire un riscatto ancora di là da venire.
Barbara Rossi