“Rogue One: a Star Wars Story”, di Gareth Edwards (l’autore di “Monsters”, 2011, e “Godzilla”, 2014), fa entrare nel vivo la sfida cinematografica tra le pellicole prenatalizie: primo spin-off della mitica serie di “Guerre stellari”, si colloca temporalmente tra “La vendetta dei Sith” e “Una nuova speranza”, elaborando il filone narrativo incentrato sulla costruzione della terribile arma di distruzione della Morte Nera. Jyn Erso (Felicity Jones), la figlia di Galen Erso (Mads Mikkelsen), ingegnere ribelle obbligato dall’Impero a lavorare alla creazione della Morte Nera, da quindici lunghi anni crede che il padre sia morto. All’improvviso, le arriva un messaggio da parte di Galen, che rimette in discussione tutta la loro complessa vicenda esistenziale. Jyn decide, allora, di partire alla ricerca di suo padre, insieme al capitano Cassian Andor (Diego Luna), per svelarne il segreto e provare a fermare gli oscuri disegni dell’Imperatore oscuro.
“Rogue One” è uno spin-off di qualità, che non lesina azione, colpi di scena, imprevedibili macchinazioni, persino un pizzico di sentimento.
Dal punto di vista estetico Edwards dimostra di saper lavorare con e sulle immagini, conferendo l’obbligatoria spettacolarità a un plot che ci affascina per l’atmosfera che vi si respira: quella della migliore tradizione di “Star Wars”. Un universo in continua e si direbbe infinita replicazione, con i suoi sottotesti paralleli. Da Lucas in poi, uno spettacolo grandioso.
Con “Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali”, tratto dal romanzo di Ransom Riggs “La casa per bambini speciali di Miss Peregrine”, ritorna a ad affascinarci sul grande schermo un grande Tim Burton, più che mai affabulatore e narratore d’eccezione.
Dal suo personale universo infantile, costruito su di un patchwork di spunti e intrecci narrativi, di riferimenti metatestuali, Burton fa emergere in questo film la strana storia di Jacob (Asa Butterfield), timido e imbranato sedicenne, trascurato dai genitori ma seguito, invece, con molto affetto dal nonno Abraham Portman (Terence Stamp), che continua a raccontargli delle persecuzioni naziste a cui è sfuggito da ragazzo, dopo essersi rifugiato nell’orfanotrofio gestito da Miss Peregrine (Eva Green). Alla morte del nonno Jacob parte dalla Florida alla volta del Galles, alla ricerca della figura del nonno e di un senso che gli sfugge. Entrerà in un mondo parallelo, protetto da speciali soglie temporali, dove si combatte l’eterna battaglia tra Bene e Male, dove fantasia e fantasmagorie sono all’ordine del giorno, dove bellezza e diversità coincidono, e bambini “speciali” come lui e suo nonno, dagli sguardi illuminati e misteriosi, vengono costantemente minacciati da mostri famelici senza occhi. Anche grazie alla bravura del cast di attori, da Terence Stamp a Eva Green, “Miss Peregrine” è un film godibile, intimamente burtoniano, fedele alla sua visione del mondo. E dell’ultramondano, regno della fantasia al di là del tempo.
“E’ solo la fine del mondo” segna il ritorno al cinema del genio-bambino canadese Xavier Dolan, alla sua sesta prova drammaturgica, adattata dalla pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce, con uno straordinario cast, da Gaspard Ulliel a Nathalie Baye, Vincent Cassel, Marion Cotillard e Léa Seydoux.
Dopo la recente ed emozionante prova di “Mommy” l’attore-regista insiste sulla rappresentazione dei quotidiani dissidi e dell’incomunicabilità familiare, dell’inferno domestico, raccontando la storia di Louis (Gaspard Ulliel), drammaturgo di successo che, dopo essersi lasciato da dodici anni alle spalle la terribilità dei rapporti parentali, sceglie di farvi ritorno, consapevole di essere prossimo alla morte.
E’ proprio a partire da questo ritorno “impossibile” che ha inizio, per Louis, una lenta ma dolorosa e inesorabile discesa nel gorgo degli affetti mancati, delle recriminazioni feroci, delle vendette distillate con il veleno più micidiale che esista: il silenzio.
All’interno di questo regno ovattato ma urlante, dove sussurri e grida si alternano senza più soluzione di continuità, non è più possibile raccontare, né raccontarsi. La famiglia è ormai definitivamente tramontata, così come la comunità narrativa che essa costituiva.
Film doloroso e impegnativo, bergmaniano dramma da camera, “E’ solo la fine del mondo” concentra ogni significato ulteriore già nell’emblematico titolo: segna una cesura, uno stacco, un controcanto malinconico e carente di speranza.
Chissà se, dopo quest’altro straordinario esempio di cinema d’autore, anche Dolan, come Louis, proverà ad invertire la marcia, a seguire un nuovo percorso: per costruire una nuova comunità narrativa, un patto inedito con lo spettatore.
Barbara Rossi