Chi ha vissuto il calcio da protagonista, sa cosa vuol dire aspettare una partita: allenarsi durante la settimana duramente per conquistare un posto da titolare, raccogliere informazioni sugli avversari e prepararsi al meglio delle proprie possibilità.
Non solo i calciatori fanno così, infatti, ogni week-end sono molti gli arbitri di calcio che scendono in campo per far giocare centinaia di ragazzi in tutta Italia.
Una partita di calcio per un arbitro è molto diversa da quella di un calciatore, perché, soprattutto a livello giovanile, non ha nessuno con cui parlare, farsi aiutare o stemperare la tensione della partita.
L’arbitro, arrivato al campo un’ora prima della partita, si presenta ai dirigenti delle squadre, per poi entrare negli spogliatoi per cercare la concentrazione per la partita.
In quell’ora prima di scendere in campo un arbitro ripassa tutto quello che, durante la settimana, ha raccolto sulle due squadre, controlla i documenti e si prepara per scendere in campo.
Terminato il riscaldamento, si richiamano le squadre per procedere con il riconoscimento e dopo si scende in campo per la partita.
Il match comincia e l’arbitro per cento minuti deve essere concentrato su tutto quello che in quel rettangolo verde succede, senza l’aiuto di nessuno: né allenatore, né compagni, né pubblico.
Durante la partita sono tanti i pensieri, su cosa si è fatto bene e cosa male, perché un arbitro quando sbaglia lo sa, però non si può abbattere perché c’è una partita da portare a termine.
Tra questi pensieri si arriva a fine partita, dove il triplice fischio sancisce che, per quel fine settimana, l’arbitro ha svolto il suo lavoro solo nel suo ruolo di giudice, solo sul rettangolo verde.