Nonostante il recente decreto legge sull’apertura di nuovi Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), essenziali per fronteggiare l’ondata di sbarchi che ha superato quota 140.000 arrivi da gennaio, la struttura di Torino rimane chiusa.
Lo è da oltre 7 mesi, in seguito a un incendio divampato all’interno, e i lavoratori sono stati licenziati. A denunciare la situazione è il sindacato autonomo Confsal e la sua federazione di categoria Snalv Confsal che parla di licenziamento dei dipendenti, dovuto all’impossibilità di richiedere altri ammortizzatori sociali, allo scadere del periodo di Cassa Integrazione applicata.
“Abbiamo più volte sollecitato il Ministero competente a fornire informazioni su un possibile ripristino delle attività. Ma non è mai giunta risposta, rendendo di fatto impossibile prevedere la riapertura” ha dichiarato il Segretario regionale Snalv Confsal, Giuseppe Arceri.
Ma viene da chiedersi: come si dovrebbe risolvere il problema, se la burocrazia ferma tutto e le strutture ci sono ma stanno chiuse?
Lo scorso 16 settembre sono scadute le 26 settimane di Fondo d’integrazione salariale (F.I.S.) che l’Ente gestore della struttura (ORS) poteva richiedere all’INPS. A causa della situazione di stallo, nessun altro ammortizzatore sociale poteva essere richiesto dall’azienda che, di conseguenza, in data 11 ottobre ha avviato la procedura di licenziamento collettivo.
Il sindacato ha compiuto ogni sforzo per tutelare i lavoratori “in uscita”: grazie all’accordo sottoscritto il 18 ottobre, l’azienda si è impegnata a erogare 32 giorni di integrale retribuzione, successivamente alla scadenza della cassa integrazione, l’indennità di mancato preavviso (che va dai 15 ai 40 giorni di retribuzione, in base ai livelli di inquadramento), il T.F.R. in un’unica soluzione entro il prossimo 31 dicembre, un’ulteriore somma a titolo transattivo. Al tempo stesso è stata prevista l’estensione del diritto di precedenza a 12 mesi dalla data di recesso.