Da Gheddafi alla guerra civile; dalla guerra civile al governo ad interim; ora la Libia, paese dirimpettaio all’Italia, con il quale condivide un bel pezzo di Mediterraneo, è ormai prossima alle elezioni previste per il prossimo 24 dicembre. La tornata elettorale dovrebbe, nella speranza della comunità internazionale, garantire la ricostruzione dell’assetto istituzionale, amministrativo e gestionale del paese. L’interesse principale per l’Europa, e soprattutto per l’Italia, è che la Libia torni ad essere uno stato forte, in grado di controllare ed amministrare il proprio territorio. Innanzitutto, poiché il Paese, trovandosi alle porte del Vecchio Continente, rappresenta una via d’accesso privilegiata e una tappa quasi obbligata per le rotte migratorie provenienti dall’Africa subsahariana dirette in Europa. In secondo luogo, la sua posizione geografica conferisce allo stato nordafricano un ruolo assai strategico per il controllo del mediterraneo, da qui l’interesse turco per la situazione nel Paese.
La “rifunzionalizzazione”, per così dire, dello stato libico è quindi di primaria importanza, o almeno così dovrebbe essere, per l’Italia e per l’Europa tutta. Questa permetterebbe da un lato di porre sotto controllo il territorio, teatro di un grave disastro umanitario e sociale rappresentato dalle terribili condizioni dei migranti, detenuti in Libia, costretti ad affrontare un viaggio in mare impreparati, il più delle volte fatale, dall’alto potrebbe porre un freno all’avanzata della Turchia, affamata di riconquistare il suo antico dominio sul mare nostrum.
L’elezione che (non) s’ha da fare. L’agonia del popolo libico
«Il popolo libico aspira a porre fine allo stato di frammentazione, divisione, conflitti e guerre» scrive l’’ex vicepremier del Governo di accordo nazionale e vicepresidente Ahmed Maiteeg, in una lettera inviata al Consiglio presidenziale e al parlamento. «Pertanto — sottolinea — la data fissata per lo svolgimento delle elezioni del 24 dicembre 2021 è diventata un diritto nazionale e un impegno vincolante davanti al popolo che non può essere annullato». Anche le Nazioni Unite sollecitano, attraverso la voce del proprio inviato speciale Jan Kubis, la Libia a «non perdere tempo» e a proseguire i lavori necessari allo svolgimento delle elezioni nel Paese. «Il governo di unità nazionale ha trovato le risorse necessarie per l’organizzazione delle elezioni – ha fatto sapere Jan Kubis durante il vertice tenutosi ad Algeri nelle giornate del 31 agosto e del 1° settembre, con i rappresentanti dei paesi confinanti della Libia – ma serve anche un quadro giuridico il prima possibile». In realtà nonostante la data prevista sembra essere sempre più vicina, le elezioni appaiono sempre più lontane. A quattro mesi dal voto manca sia una legge elettorale che i parametri per le candidature. Anche la natura stessa delle elezioni, se si voterà per il presidente o per il parlamento o per entrambi, non è ancora stata stabilità. Si capisce quindi lo scetticismo dominante fra gli analisti internazionali e i politici libici, che vedono sfumare la possibilità concreta di portare la Libia alle urne entro la fine dell’anno, nonostante le sollecitazioni del Onu dell’Ue e dei paesi limitrofi.
Dopo la caduta di Gheddafi, avvenuta nel 2011, il paese si è frammentato, ostaggio degli scontri fra le milizie dei gruppi che formavano la coalizione dei ribelli, responsabile della fine del regime del rais. Nel giugno del 2020 la sconfitta, nella cosiddetta “battaglia di Tripoli“, subita dalle truppe dell’autoproclamato maresciallo Haftar, sostenuto da Emirati Arabi Uniti (Eau), Egitto, Russia e Francia e avversato dalla Turchia e dal Qatar, ha portato le parti in conflitto ad un cessate il fuoco. Gli sforzi di mediazione delle Nazioni Unite sono riusciti poi con i vertici di Ginevra, e le due Conferenze di Berlino sostenute dalla Germania, a raggiungere un accordo per avviare nel paese un processo di transizione verso nuove elezioni libere. Attualmente la Libia è governata da un governo provvisorio, guidato da Adulami Daibaba, imprenditore di Misurata, accusato di boicottare il processo elettorale per poter rimanere in carica oltre il suo mandato. Secondo le regole stabilite dal Foro di dialogo politico, infatti, il premier Daibaba e con lui molti altri esponenti istituzionali dell’attuale esecutivo, non potranno ricandidarsi per il prossimo governo, né concorrere per un posto nel parlamento libico. Non è chiaro nemmeno se lo sconfitto Haftar e il suo rivale Fathi Bashaga, ex ministro dell’Interno a Tripoli sostenuto da Erdogan, potranno concorrere per la presidenza, visti i numerosi divieti previsti dalle regole del foro politico e l’incerta situazione delle norme elettorali ancora non del tutto stabilite.
Una situazione, dunque, tutt’altro che chiara e lineare. Certo è che il fallimento della politica potrebbe riaccendere la miccia delle armi, facendo ripiombare il paese di nuovo in uno stato di guerra. A soffrirne di più, come sempre, sarebbe lo stesso popolo libico, un popolo che da oltre un decennio a questa parte non sembra conoscere pace.
Daniele De Camillis