Le specialità mediche integrate con le attività dell’emergenza e dell’urgenza. Una novità e una sfida per il direttore, Guido Chichino, chiamato a guidare il Dipartimento Internistico cui fanno capo diverse strutture: Mesotelioma, Reumatologia, Medicina interna, Endocrinologia e malattie metaboliche, Malattie dell’apparato respiratorio, Cardiologia, Gastroenterologia, Geriatria, Neurologia, Malattie infettive, Nefrologia e Dialisi, Oncologia, Ematologia.
Qual è il valore di questo Dipartimento?
«L’Internistico è una vera novità per la nostra azienda, in quanto nasce dall’integrazione di due precedenti. Non è però una novità in senso assoluto, in quanto anche in realtà vicine alla nostra si è andati verso l’integrazione di funzioni a scavalco fra diversi ambiti, forse più arditi, come fra il Dipartimento Internistico e quello Chirurgico. Nel nostro caso invece la peculiarità sta tutta nell’integrazione fra le esigenze dell’urgenza e la possibilità di integrarle con le prestazioni in elezione e di cronicità. E in questa dinamica l’attenzione che bisogna rivolgere al Dea (Dipartimento di emergenza e accettazione) è fondamentale perché un servizio di emergenza riesce a rispondere bene al compito che è chiamato a svolgere se ha capacità di manovra, cioè se alle spalle vi sono reparti che possono ricevere pazienti in un continuum temporale. I reparti a loro volta riescono a rispondere alle necessità del Dea se non vi sono intoppi nell’iter diagnostico-terapeutico dei casi presenti, e così via, il tutto concatenato in una interdipendenza egualmente distribuita fra tutti i settori dell’ospedale. Un grande aiuto in tale dinamica è venuto e verrà sempre più dal supporto delle unità Gestionali che il direttore generale, Giacomo Centini, ha fortemente voluto».
È la prima volta che assume un incarico complesso come questo. Come si è preparato e come lo sta vivendo?
«Sicuramente un incarico così complesso lo si assume raramente, tuttavia in ambito prettamente specialistico (e non multidisciplinare come questo) ho avuto esperienze con numeri ben più alti di persone, fra operatori e pazienti, e pertanto la cosa non mi spaventa più di tanto. È chiaro però che avrò bisogno dell’aiuto leale di tutti gli attori di questo Dipartimento, altrimenti non si va da nessuna parte.»
Quanto pesa, e peserà in futuro, la ricerca con particolare riferimento al percorso verso l’Irccs (Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico)? È un valore aggiunto per pazienti e azienda, ma come si integra nell’attività quotidiana dei reparti?
«Personalmente ritengo che il percorso verso l’Irccs sia l’unico motore in questo momento per dare rilancio alla sanità e parallelamente all’economia di questa disastrata provincia. Le potenzialità dell’Irccs sono state ben comprese dai politici ‘illuminati’ della nostra zona in maniera bipartisan. Chiaramente il percorso non è in discesa, anche perché si sottrarrebbero finanziamenti in altre Regioni, e pertanto non mi stupirei di vedere all’orizzonte il sorgere di qualcuno che potrebbe ostacolare questo percorso. Io ho vissuto la nascita dell’Irccs al Policlinico di Pavia e anche lì qualche intoppo ogni tanto veniva alla ribalta, ma il processo è stato irreversibile e ha scavalcato tutti gli ostacoli, anche le miserie umane. Con i fondi della ricerca si possono fare cose inimmaginabili nell’interesse dei malati, perché più liberi dai lacciuoli burocratici, vero ostacolo per qualsiasi forma di ricerca. In proposito le voglio fare un esempio su un argomento al quale pochi pensano: le infezioni ospedaliere. Queste rappresentano una delle principali cause di malattia e di mortalità nel mondo industrializzato. La Comunità Europea ha stanziato parecchi fondi per la ricerca in questo settore (test di laboratorio, conservazione degli isolati, uso di nuovi farmaci), ma quasi tutti dedicati agli istituti di alto livello come gli Irccs. Pertanto, essere in questo circuito è fondamentale».
Il rapporto con il mondo universitario si sta consolidando, secondo lei quali saranno i vantaggi reali per medici e pazienti?
«Noi stiamo parlando in questi giorni di pandemia, crisi dei Pronto soccorso, saturazione dei posti in terapia intensiva, ma pochi sanno o si rendono conto che il principale problema della nostra sanità è la mancanza di personale. Ormai tutti i medici ambiscono a ritornare presso la sede di formazione universitaria, pertanto finché non si formerà un personale in Alessandria saremo sempre soccombenti in questo. Il ruolo dell’Università e le sinergie con la sanità territoriale sono pertanto imprescindibili».
La pandemia cosa ha insegnato in termini di approccio e gestione del paziente?
«Da anni chi mi conosce sa che ripeto sempre il solito mantra: se al mondo non esiste una struttura privata di Malattie infettive, ci sarà un perché! È chiaramente una forzatura ma serve a rendere un concetto fondamentale: le malattie contagiose non possono essere valutate secondo criteri economici.
Non voglio entrare nella polemica sul mancato piano pandemico italiano, ma quanto ci sia “costata” questa mancanza è sotto gli occhi di tutti. Spero che questa pandemia serva almeno a non farci commettere più errori in futuro e che la prevenzione e pronta disponibilità di mezzi e personale siano prezzi da pagare che la popolazione sopporterà con consapevolezza».
A suo giudizio, pur in presenza dei vaccini, quanto è urgente mettere a punto una terapia mirata per il covid?
«L’ho sempre detto, fin dall’inizio della pandemia, il vaccino sarà importante ma la terapia ancora di più, perché i coronavirus hanno la caratteristica di mutare rapidamente e in teoria è più facile che si formino mutazioni resistenti ai vaccini che piuttosto ad una eventuale terapia. Ma anche se il meccanismo di resistenza fosse simile, verso il vaccino e la terapia, è chiaro che l’efficacia di una terapia corretta sarebbe immediata, mentre quella di un nuovo vaccino avrebbe bisogno di tempo per rendersi palese. Noi non sappiamo cosa ci riserverà in futuro la casualità delle mutazioni virali: potrebbero sorgere varianti iperdiffusive, oppure iperpatogene, ma anche varianti autolimitantesi. Molto probabilmente andremo verso una forma virale che da pandemica si trasformerà in endemica, cioè come il raffreddore, che è sempre presente nella popolazione. Bisognerà vedere il grado di patogenicità di questa endemia ed il controllo che potremo avere su questa con farmaci maneggevoli»